Presentato il Manifesto della Salute Mentale

Presentato il Manifesto della Salute Mentale

E’ stato presentato sabato 4 dicembre, a Napoli, all’istituto italiano per gli studi filosofici, il Manifesto della Salute Mentale, promosso da Sarantis Thanopulos, presidente della Società psicoanalitica italiana (Spi), redatto con Angelo Barbato (Istituto Mario Negri), Antonello D’Elia (presidente di Psichiatria Democratica), Pierluigi Politi (ordinario di Psichiatria all’Università di Pavia), Fabrizio Starace (presidente Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica), pero ora è un opera in divenire,  si svilupperà progressivamente un documento finale, attraverso il coinvolgimento di tutte le forze: società scientifiche, operatori, associazioni degli utenti, mondo della cultura, società civile e forze politiche, fino ad arrivare alla convocazione di Stati generali e rivedere il modello di cura, non più centrato solo sui farmaci, ma su “desideri, sentimenti, pensieri e azioni”.

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Nota di presentazione

Il Manifesto per la Salute Mentale è un testo iniziale. Esso sarà sviluppato progressivamente in un
documento finale, attraverso il coinvolgimento di tutte le forze che operano nel campo della cura
della sofferenza mentale. È rivolto alle società scientifiche, agli operatori, alle associazioni degli
utenti, al mondo della cultura e alla ‘società civile’, alle forze politiche.
Con la diffusione del Manifesto si intende promuovere un vasto movimento di riforma la cui
realizzazione è un’esigenza non più rinviabile. Il primo passo sarà un incontro nazionale a Napoli,
all’Istituto degli Studi Filosofici, sabato 4 Dicembre (9.30-13.00). Che farà il punto sulla situazione
e lancerà il progetto. L’obiettivo è arrivare alla convocazione di Stati Generali per la riforma della
Salute Mentale.
Il Manifesto difende un approccio multidisciplinare alla sofferenza mentale, senza contrapposizioni
ideologiche o pretese egemoniche di corporazioni o discipline, costruite su rapporti di potere o –
peggio – sulla ricerca degli stessi. La multidisciplinarietà va di pari passo con il pluralismo della
ricerca e con la verifica scientifica dell’efficacia dei diversi metodi di cura. La verifica deve essere
basata su dati rigorosi che stabiliscono se vi è corrispondenza tra i parametri che chiaramente
definiscono l’obiettivo della cura i risultati effettivamente raggiunti. La corrispondenza deve essere
leggibile e verificabile da una prospettiva indipendente rispetto all’approccio di cura studiato, ma è
ragionevole che un approccio centrato prevalentemente sulla qualità della vita usa parametri diversi
da uno centrato prevalentemente sul piano quantitativo di contenimento dell’angoscia.
L’essere “medici” o “psicologi”, la formazione di base degli operatori nei servizi della Salute di base,
non definisce l’impegno professionale nella salute mentale che richiede, invece, un qualificato,
rigoroso percorso di specializzazione in psichiatria (nei suoi vari indirizzi: farmacologico, sociale,
epidemiologico) e psicoterapia (psicoanalitica, relazionale, fenomenologica, cognitivista, di bambini
e adolescenti, di gruppo, di famiglia, di coppia ecc.). La distinzione sulla base della laurea in medicina
o psicologia non legittima in alcun modo la discriminazione sul piano della carriera e della
responsabilità nella gestione della cura che di fatto una parte degli psichiatri promuove, imponendo
il modello biomedico come regime monocratico di cura nella salute mentale.

Sarantis Thanopulos

 

Manifesto per la Salute Mentale
La cura nella Salute Mentale come valorizzazione della persona e difesa della democrazia

 

La cura del dolore nel campo della Salute Mentale pubblica è in crisi. Il dominio del modello
biomedico l’ha inaridita. L’approccio puramente farmacologico alla “sofferenza mentale” e,
tendenzialmente, a tutte le problematiche esistenziali, appiattisce sulla biologia i nostri desideri,
sentimenti, pensieri e azioni, facendo leva su un obsoleto determinismo naturalistico. Esso ha creduto
di potersi accreditare scientificamente a forza di “evidenze”, costruite a sua immagine e somiglianza,
ma l’aver perso di vista l’esperienza soggettiva l’ha condotto a risultati deludenti. Ci sono state tante
ricerche, investite grandi risorse finanziarie, sono stati pubblicati molti articoli, ma non sono stati
ridotti i suicidi, i ricoveri e non sono stati migliorati gli esiti di guarigione delle persone con problemi
di salute mentale.
Il modello biomedico ha trovato sostegno nei media, nell’insegnamento universitario, in gran parte
dei servizi di Salute Mentale. Si è capovolta progressivamente la prospettiva, faticosamente
conquistata, dell’umanizzazione della cura psichiatrica e si è registrato un ritorno prepotente alla
logica dell’“istituzione totale” rivisitata: la reclusione delle persone sofferenti in esistenze
diagnostiche costruite in funzione di trattamenti farmacologici disinvolti. Le ricerche scientifiche che
mostrano l’uso eccessivo, inappropriato dei farmaci, che soffoca insieme ai sintomi anche la persona,
e indicano la possibilità concreta di un loro uso pensato, accurato, sono ignorate.
La psichiatria dissociata dalla psicoanalisi/psicologia dinamica, dalla pratica psicoterapeutica, dalla
fenomenologia, dalla psichiatria sociale e relazionale si è impoverita e rischia di ridursi in mestiere
tecnico di contenimento/sedazione delle emozioni, fatto da psichiatri che pensano e agiscono secondo
algoritmi. La relazione terapeutica si è chiusa nel rapporto assistenziale a senso unico tra curanti e
curati, invece di costituirsi nell’ambito della reciprocità, dello scambio affettivo e mentale tra pari.
L’attuale stato delle cose favorisce la spersonalizzazione dei vissuti sia degli operatori sia delle
persone sofferenti. E tende a creare un clima depressivo, emotivamente povero, negli spazi della cura.
La riforma Basaglia, che ha ridato dignità di cittadinanza e diritto alla soggettivazione della propria
vita al “paziente psichiatrico” (sino ad allora non considerato entità giuridica e politica), è sotto
attacco, nonostante le dimostrazioni di qualità provenienti da quei servizi che ne hanno applicato lo
spirito in modo innovativo. È tempo che tutte le forze riformatrici che considerano il pensiero e la
prassi della cura psichica pubblica come strumenti critici di costruzione solidale e democratica della
vita cittadina si uniscano per opporsi alla controriforma in atto. Per costruire un approccio al dolore
psichico fondato sul dialogo tra saperi che si confrontano tra di loro in modo paritario.
Lavorare insieme, unire saperi ed esperienze in un approccio multidisciplinare, ha rappresentato, nei
momenti migliori, l’elemento portante dei dispositivi di cura. Questa eredità tradita deve essere
recuperata. A partire dalla valorizzazione del lavoro dell’équipe territoriale, fulcro dell’intero sistema
della Salute Mentale e luogo in cui integrano tra di loro i diversi approcci alla cura:
– Il trattamento farmacologico mirato e critico, coadiuvato da un lavoro paziente di sostegno
relazionale e di accoglienza umana del dolore, che è funzionale al contenimento dell’angoscia
acuta, invasiva, e della depressione.
– La cura, ispirata alla teoria e alla clinica psicoanalitica/psicodinamica (nelle sue varie forme:
individuale, di gruppo, di coppia, di famiglia) e ai principi fenomenologici, che promuove il
lavoro di trasformazione psichica necessario al ritorno in gioco della soggettività desiderante.
– La terapia cognitivo-comportamentale e la terapia delle relazioni, che usa principi sistemico-
familiari.
– Il lavoro di integrazione socio-culturale nella comunità in cui si vive, che richiede una
competenza specifica delle dinamiche psichiche e sociali della collettività, una grande
sensibilità umana e una collaborazione costante con le istituzioni e con gli ambienti della
cultura umanistica, della letteratura, del teatro, del cinema, dell’arte. Questi ambienti hanno
una funzione preziosa nella costruzione della comunità, nella configurazione delle reti
condivise di significazione dell’esperienza che creano un senso di identità aperto alla
differenza, all’alterità, non chiuso in sé stesso.
– Il lavoro di prevenzione, basato sulle diagnosi precoci, sulla valorizzazione dell’intervento
psicopedagogico e della psicoterapia dei bambini e negli adolescenti, sull’individuazione di
realtà familiari fragili, sugli interventi di sostegno in ambienti sociali vulnerabili colpiti da
fenomeni di degrado, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, negli ospedali.
– La partecipazione attiva e organizzata degli utenti con problemi di salute mentale che portano
il contributo della loro soggettività al processo di cura.
– Il superamento delle pratiche coercitive e violente attraverso la critica costante e la
promozione di pratiche alternative in tutti i contesti di cura.
Il buon funzionamento dell’équipe ha un suo indispensabile complemento in un rigoroso lavoro
epidemiologico e di ricerca clinica che affida la verifica del lavoro svolto soprattutto a criteri di
qualità: lo sviluppo dei legami affettivi, della creatività e della libertà di espressione personale.
L’équipe richiede una buona formazione di partenza in tutte le sue componenti. Essa non è, tuttavia,
la somma delle competenze che la compongono, non è un’attività poli-ambulatoriale. Non si
identifica con una sede ma la sua funzione si diffonde nel territorio e eccede la sua composizione in
due sensi. Da una parte include nel suo lavoro il gruppo dei pazienti, i loro familiari, le forze culturali
e sociali con cui interloquisce; dall’altra amalgama tra di loro le diverse prospettive che ospita nel
suo interno creando una prospettiva unitaria, un lavoro di cura coerente. L’équipe è luogo di
formazione e di ricerca permanente, il luogo in cui la terapia della sofferenza grave, invasiva, si
configura attraverso l’esperienza in modo autentico, vero.
La cura psichica non è un’applicazione di principi tecnici ai quali le persone sofferenti devono aderire,
in una falsificazione reciproca di rapporti. È una prassi, un prattein nel senso nobile del termine che
gli ha assegnato Aristotele: l’agire che ha come suo oggetto la vita dell’uomo. La prassi della cura
psichica è un lavoro che segue principi scientifici, ma prende forma nell’ambito di relazioni personali,
non anonime, come sapere artigianale che riconosce in ogni storia di sofferenza la sua particolarità,
in ogni esistenza sofferente la sua trama originale. L’umanizzazione della cura non perde mai di vista
gli strumenti farmacologici o i dispositivi relazionali che contengono l’angoscia. La cura, tuttavia, è
nella sua essenza un prendersi cura della relazione con le persone che soffrono. Essa è, al tempo
stesso, mezzo e fine, affermazione della soggettività.
È fuorviante e profondamente dannoso per la salute psichica dell’intera comunità che la cura della
sofferenza grave sia orientata e definita da coloro che lavorano in laboratorio, sulla base di schemi
diagnostici “obiettivi” prodotti da una compulsione tassonomica che nulla aggiunge al sapere
prognostico, senza entrare mai in contatto con le persone sofferenti, senza conoscere i loro desideri,
le loro emozioni, i loro pensieri travagliati, senza sentire il loro respiro, senza incrociare il loro
sguardo. Le espressioni bizzarre, tormentate, incoerenti di una psiche lacerata se da una parte sono
manifestazione di una sottostante angoscia destrutturante, che deve pur trovare tregua, sollievo,
dall’altra sono l’unica forma con cui la persona sofferente si tiene viva e comunicante. La loro
soppressione attraverso un abuso di cure farmacologiche, fa rientrare dalla finestra ciò che si pensava
essere stato accompagnato alla porta: la logica manicomiale, la cancellazione violenta di identità, di
esistenze umane.
L’approccio puramente quantitativo alla terapia del dolore psichico – la sua sedazione che mira
soprattutto a renderla invisibile – ha portato allo sviluppo di un dolore sordo che svuota il senso
dell’esistenza, diffondendosi ben al di là dei confini della sofferenza “psichiatrica” conclamata. Le
soluzioni anestetiche non riguardano solo coloro che patiscono una sofferenza psichica grave, ma
affliggono chiunque nelle varie fasi della sua vita incontri difficoltà, incertezze, vacillamenti, crisi
esistenziali. Persone giovani o adulte che hanno un’alta probabilità di essere ridotte a un’etichetta
diagnostica con cui saranno portate ad identificarsi e con cui saranno identificate.
Il progetto mistificante di una società senza dolore che passivizza i cittadini, sia deprimendoli sia
spingendoli verso la scarica impulsiva/compulsiva delle loro emozioni, ha creato storicamente un
terreno favorevole al totalitarismo. Ribellarsi all’equiparazione tra la persona e la sua biologia è una
questione di civiltà. Contrastare la standardizzazione, l’omologazione dei comportamenti e la
sottomissione della nostra concezione della vita al tecnicismo dilagante, è affermare la democrazia

Redazione del testo
Angelo Barbato, Istituto Mario Negri Milano
Antonello D’Elia, Presidente di Psichiatria Democratica
Pierluigi Politi, Ordinario di Psichiatria Università di Pavia
Fabrizio Starace, Presidente Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica
Sarantis Thanopulos, Presidente della Società Psicoanalitica Italiana

 

 

 

 

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Photo: Pixabay

 

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Fonte: Sociale.it