Riguardo i disturbi mentali più sfuggenti di altri, il caso di quello che chiamiamo disturbo bipolare, che tocca molte più persone di quante possiamo immaginare, si stima una prevalenza intorno all’uno-due per cento della popolazione. Persone che abbiamo intorno, con cui lavoriamo, studiamo, interagiamo quando facciamo la spesa. Quando si sente nominare il disturbo bipolare si pensa a una persona con fortissimi attacchi maniacali e depressivi, a persone che non riescono a controllarsi.
Giovanni Rossi, una vita spesa come psichiatra presso i Servizi di salute mentale di Mantova e Modena dice: “Il disagio bipolare in realtà è qualcosa di molto più comune di quel che tanti pensano. Quelli più drammatici sono i casi più acuti, ma ci sono dei segnali che possiamo osservare in noi stessi e che ci permettono di intercettare un disagio che sta prendendo piano piano forma e che potrebbe diventare più problematico se non preso in carico”.
“Questo disturbo è sfuggente perché in realtà non è qualcosa che si manifesta improvvisamente in una persona. Quello che tocca alcune persone è l’acuirsi estremo di un malessere che magari in forma leggera e picchiettante hanno sempre sentito. Tutti noi abbiamo dei momenti nella nostra vita in cui ci sentiamo un po’ più carichi e altri più malinconici. Giornate in cui ci svegliamo con un umore peggiore senza un motivo apparente e altre in cui ci sembra di avere l’argento vivo addosso”.
L’umore dell’essere umano è di per sé altalenante. Secondo i manuali, il disturbo bipolare prevede l’alternarsi di periodi depressivi, e di altri detti maniacali, in cui il soggetto si sente onnipotente.
Continua il Dott. Rossi: “Parliamo di disturbo bipolare quando l’alternarsi dell’umore diventa invalidante per la vita quotidiana; quando per questo malessere di fondo si rompono degli equilibri. In tanti anni di esperienza mi sono fatto l’idea che il disturbo bipolare sia in realtà un fenomeno depressivo, cioè che si tratti di fatto di persone con depressione, la cui mente, a differenza di quella di altre persone, compensa la depressione con un senso direi di onnipotenza, che dall’esterno è percepito come eccessivo. Dal momento che non è possibile sfruttare strumenti efficaci per combattere la depressione, è come se la mente provasse un’‘autocura’ attraverso un pensiero che viene percepito come opposto all’impotenza“.
Gli equilibri però sono soggettivi, ed è per questo che dare definizioni quantitative nette è delicato. Per esempio, per una persona che nella fase maniacale dell’eccitamento sente l’impulso di fare regali a tutti, di spendere anche molto denaro, questo diventerà un problema solo nel momento in cui il denaro finisce. Altrimenti questo comportamento “eccessivo” non sarà visto come un problema.
Lo stesso vale nei comportamenti sociali considerati troppo disinibiti. In alcuni contesti sociali un comportamento “si noterà” molto più che in altri. Il contesto partecipa a definire il momento in cui si passa dal disagio al disturbo. Il disturbo bipolare inizia a diventare evidente alla persona perché qualcuno inizia a far notare alcuni comportamenti, che finiscono per portare ancora più dolore, senso di inadeguatezza.
Nella depressione si riscontra una carenza di dopamina o serotonina, a seconda dei casi, che crea uno squilibrio nell’umore. Il quadro maniacale sarebbe dovuto a un effetto di ribaltamento rispetto alla carenza di dopamina, cioè a una produzione sovrabbondante di questo neurotrasmettitore.
Quello che conta è prendere in carico la persona. Quando è davvero presa in carico, cioè ascoltata, quando fra noi e lei si crea un rapporto alla pari di fiducia, in un po’ di mesi di cammino si riesce a compensare bene il disturbo, spesso senza farmaci.
“L’ascolto silenzioso e senza fretta, genera fiducia. Serve ascoltare a lungo, ma con partecipazione, non con distacco”, osserva Rossi. “Per me è la persona che ho davanti che deve raccontarmi se stesso, non sono io. Solo la persona sa davvero come si percepisce, quali sono le difficoltà che vive, che ha vissuto in passato. L’errore principale è iniziare a mettere addosso una persona un’etichetta. A me per esempio non interessa diagnosticare, dare un nome, ma che la persona che ho davanti si senta letta nel modo che reputa corretto: solo da lì posso partire io per decifrare quale può essere il problema. Io affianco, non fronteggio la persona che ho davanti”.
Il primo passo nella presa in carico nel settore pubblico – che è l’unico servizio psichiatrico che può offrire un approccio multidisciplinare – è psicologico, e serve per ricostruire la biografia della persona, e capire bene quali sono i punti critici per costruire un progetto condiviso. Qui il terapeuta lascia alla persona la possibilità di raccontarsi; usando le sue parole.
“Le persone che ci stanno vicine tendono a vederci sempre uguali a noi stessi”, conclude Rossi. “Ci vedono sempre come eravamo e non vedono il cambiamento che stiamo maturando. L’equilibrio personale passa anche attraverso il riconoscimento dei ‘veri’ noi stessi negli occhi degli altri; quindi il coinvolgimento delle persone che ha intorno, all’interno del percorso di riequilibrio del soggetto, è un passaggio che una buona presa in carico deve considerare.”
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