C’è una persona su dieci nel mondo a cui viene diagnosticata una patologia mentale, la maggior parte con sintomi depressivi, specialmente le donne, ma i Paesi spendono in media solo il 2% delle risorse del settore medico nella cura della salute mentale, inoltre, l’80% delle persone con disabilità, incluse disabilità psicosociali, viva in paesi a medio o basso reddito, dove l’accesso alle cure mediche è molto complicato e il diritto alla salute mentale è pressoché assente.
Lo “Human Rights Watch”, (Osservatorio dei Diritti Umani) un’organizzazione umanitaria americana, ha pubblicato un report recentemente dal titolo “Living in Chains” (Vivere in Catene) che approfondisce il fenomeno della riduzione in catene di persone con disabilità psicosociali. Persone private dei movimenti per mezzo di manette o ferri, rinchiusi in gabbia, adulti, donne o bambini, in condizioni di vita degradanti e scarsa igiene, in case, istituti privati o statali, centri medici tradizionali, dove si ricorre a pratiche “curative” arbitrarie, detenute contro la propria volontà.
I metodi di questi trattamenti, ovviamente, possono solo peggiorare la situazione, si riscontra stress post traumatico, malnutrizione, infezione, danneggiamento dei nervi, atrofia muscolare e problemi cardio-muscolari, oltre che scabbia e pidocchi e abusi fisici, verbali e sessuali.
I Paesi presi in esame sono, tra gli altri, Repubblica Democratica del Congo, Ghana, Kenya, Liberia, Cina, Nigeria, India e Indonesia, pochissimi dei Paesi considerati hanno leggi o politiche che vietano in modo esplicito il fenomeno della detenzione coatta, nonostante ciò, non ci sono al momento sforzi internazionali o regionali coordinati per porre fine al fenomeno della riduzione in catene.
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Photo: Pixy